29 novembre 2007

Di quel viaggio che sento alla fine

Dell'immagine di un ragazzino strappato alla scuola, del precoce lavoro, della capacità e della fermezza, dei sacrifici nel tempo, della fiducia nel dormirmi accanto mentre guidavo silenzioso fumando un'altra sigaretta di nascosto, di una macchina da guerra, la sua guerra a lungo combattuta e persa soltanto in un piovoso mattino di aprile, quando ti svegli e non sai più chi sei e l'immagine di te è lontana dal tuo corpo, del come mi sorprendeva destandosi dal sonno nel mio esatto momento di crisi, di tutte le volte che "ti conviene girare di là...", della capacità assoluta di mantenere la calma anche quando il più stolto pontificando sulla propria ignoranza ti prendeva in giro senza sosta e della verità nascosta nel guadagno quotidiano, di tutte le mattine alle cinque, delle risate e delle canzoni stonate, della velleità di attore e delle reali capacità riconosciute, del caffè delle mie mattine da studente che nelle sue mani sembrava un elisir, del suo essere diverso da me e tanto simile nello specchio delle mani, delle sue mani in cui rivedeva quelle del padre, degli scontri mai sopiti delle ideologie, della benzina che mi faceva di nascosto, delle assenze patite nel lavoro lontano da casa, della manualità trasmessa, della capacità d'inventarsi l'impossibile, e del suo sguardo assente di oggi.
Dei suoi racconti semplici e accorati e delle mie lacrime nascoste e silenziose, del suo dolce sorriso e dello stupirsi delle mutazioni, dell'incoraggiamento costante e di tutte le avversità, delle sue lacrime di rabbia e d'impotenza, del riciclarsi nella vecchiaia, del mai abbattersi e dei miei viaggi al finestrino e della felicità di un bambino, della solita insalata verde o del cappuccino della sera, delle valigie colme e delle valigie trafugate, dei viaggi milanesi e delle stradine pugliesi, di una sicilia amata e contemplata, del non riconoscermi più, di quello che è mancato e di quello che è stato, della generosità non riconosciuta e della derisione, dell'invidia e del disprezzo, di un articolo di giornale, dei morti ammazzati e delle morti naturali, delle amicizie perdute e degli allori dimenticati, di quel piede martoriato e dei chilometri viaggiati, di un'infanzia presto dimenticata e dei fratelli perduti.
Del suo sguardo assente di oggi, dei capelli disordinati e delle rasature approsimate, dei suoi occhi profondi che non ricordano più.
Della mia rabbia e della mia impotenza, delle mie fughe vigliacche e dei pianti solitari, delle foto distratte e della foto da militare, delle melenzane fritte nell'acqua sotto le bombe e delle cassate siciliane, della difesa a oltranza della specie e della sua dimenticanza, degli occhi attoniti dei miei fratelli e della disperazione di mia madre.
Del suo sguardo assente, del suo non parlare, degli abbracci mancati e di quelli che non ci saranno, di quei calci sbilenchi a un pallone o del pranzo domenicale, delle sue parole taglienti e del disperante congedo finale.

27 novembre 2007

Giulia corre

La strada è in salita, Giulia è in ritardo, il sole è già scomparso all'orizzonte, gli ultimi raggi si riflettono nelle acque dello stretto, Giulia non ci pensa due volte, compone il numero e alla risposta ricomincia la polemica, sta quasi correndo, la voce è affannata, ma non smorza la sua dolcezza, il suo accento frammisto di romano e napoletano, o almeno così percepisco, Giulia va sempre all'attacco, indomabile e sicura, sono davvero timido?
Giulia è un lampo nel cielo, ascolta sempre con grande interesse fa sue le storie che le racconto, non è mai superficiale, non dimentica mai nulla, le piace ascoltare, le piace capire.
Giulia nella sua mansarda, la tisana e la "bastarda turca", non finirà mai quel libro.
Mario anche oggi non ha letto il programma, sono tutti da Emanuela, è là che è diretta anche lei.
Un lampo nel cielo stellato, no, il freddo non vuole saperne, è caldo anche oggi, le lenticchie prendono colore tra un pò faranno compagnia al riso e poi un cucchiaio di olio della mia terra.
Giulia è possessiva, Giulia chiede, attraversa luci ed ombre, Giulia è solo in cerca di conferme.
Quanti piatti, le posate, non ha voglia, non ancora, l'acqua è pronta Giulia tace.
I capelli, così corti, camomilla e piumone, Giulia ascolta sempre, Giulia non mi parla di se, attende le mie domande.
Giulia corre sempre, cerca se stessa, cerca qualcosa, cerca qualcuno.
Odore di buono nell'aria, un sorriso, apro piano la finestra, un leggero tepore si diffonde nella stanza, arriverà l'inverno?
Giulia sta dormendo, lo sento, la mia tisana è pronta, guardo un'altra foto, faccio una scansione delle parole dette, come spesso accade dimentico di collegare il cervello e le parole vibrano indisturbate, fluttuano nell'aria, colpiscono, feriscono, maledetto stupido.
Morfeo non mi raccoglie, sfoglio stancamente le pagine di un nuovo libro, aspetto con fiducia che mi trascini con se, guardo ancora fuori della finestra, silenzio a tratti rotto dall'ennesimo rientro, fumo un'altra sigaretta, so che non dovrei, il cerchio alla testa me lo sconsiglierebbe, il fumo azzurrino è l'unica cosa che mi piace, per il resto comincio a detestarle.
Giulia anche lei gli occhiali sul naso, parla dei suoi bambini, del piacere tutto infantile e innocente di costruire e un attimo dopo distruggere tutto, liberazione, evasione, quante volte avresti voluto fare lo stesso e non hai più l'età.
Giulia e i suoi pranzicene, sempre allo stesso orario, una botta e via ci si ripenserà domani, il gusto perduto del riflesso dei fuochi sul tuo viso, vapori andati, nascosti in ricordi ancestrali, ricordi di bambina nella mano di tuo padre, non c'è, forse non ci sarà nel timido sguardo sorpreso di chi si sente osservato.
Giulia corre, Giulia corre sempre, Giulia non sa fermarsi, non vuole, non può, ancora affanno e richieste a se stessa, all'amico di sempre.
Ciao Giulia, dormi serena, Parigi, la Senna e la Banlieue, il Grande Arche e il suo autore danese nell'unico progetto in vita, soffi di luce, aroma di caffè, un'altra notte è andata, piacevole e insolito tepore di novembre, si annuncia primavera si direbbe, nel mio cuore è ancora inverno inoltrato, nel cuore di Giulia è sempre estate.


26 novembre 2007

Quando non ti resta nient'altro imbastisci cerimoniali sul nulla e soffiaci sopra. (Corman McCarthy)

Salar de Uyuni - Bolivia 04.08.2005

Non te lo aspetteresti mai, nemmeno in una città come la mia, quel benedetto autobus che dovrebbe riportarci a Sucre forse non esiste, forse si cela nella nostra immaginazione, il cervello annebbiato dal freddo intenso, la ragazza cortese, neanche poi tanto, ci ripete ossessivamente che arriverà, sono talmente stanco che non ho la forza di chiedermi perchè la gente che aspetta con noi in quello che sembra l'ultimo posto al mondo, abbia così tante coperte, giacconi, cappelli e sciarpe. Finalmente come in un miraggio appare il nostro autobus, talmente sgangherato e cigolante che quasi viene voglia di andare a piedi.
Cerco di non pensare, mi rannicchio nel mio posto e cerco di dormire, gli spifferi gelati mi ridestano, mi guardo in giro e capisco, gli uomini e le donne sono avvolti nelle loro coperte, intabarrati fino all'ultimo capello, la notte scende silenziosa il bus arranca e il freddo a poco a poco diventa insostenibile, cerco di muovere i piedi e disperatamente di frenare gli spifferi usando le tendine lacere e consunte, tentativi inutili, in un flash rivedo il salar, l'immensa distesa di sale 12000 kmq che si perdono a vista d'occhio, il sole caldo che si riflette nel sale, l'isla del pescado e i suoi infiniti cactus, il frugale pasto consumato in compagnia di quattro allegri ragazzi argentini. Mi volto a guardare Peppe, lo sento maledire il mondo, e ho l'immagine netta della fine. Approfitto di una breve sosta per capire se il sangue circola ancora dentro un corpo che non sento più, non riesco nemmeno ad urinare tale è il freddo.

Il gelo attanaglia ormai la mia mente, mi sento perduto, uno sguardo verso i miei vicini, due vecchietti che erano con me alla stazione, dormono, avvolti nelle loro coperte, tante, sento che non ce la farò, la disperazione m'induce a pensieri maligni e la tentazione di rubargliele si presenta in me con orrore, capisco che i pensieri non sono più pensieri, capisco a cosa può portare la disperazione, riprendo a battere i piedi, cerco di muovere le braccia, tutto inutile, non voglio nemmeno immaginare quanti gradi ci siano all'esterno, so bene della forte escursione termica, so bene che il termometro sarà sotto lo zero, ma mi dico che non posso cedere, non posso davvero finire così.
Non c'è davvero granchè da fare, m'impongo di dormire per dimenticare la sofferenza, il tempo non passa mai, e dormire quando senti la lama sottile del gelo farsi strada tra i vestiti e colpirti a morte, diventa un'impresa ardua, impossibile.
Non avevo mai provato una sofferenza simile prima, è davvero qualcosa che non si può raccontare, nonostante il piumino, il pile e la maglietta "tecnica".
Non so come ci ritroviamo sbattuti per strada alle quattro del mattino, siamo a Potosì, la coincidenza, già pagata, per Sucre in realtà non esiste, in Bolivia può capitare anche questo, ma quando mi rifugio sotto un porticato e il freddo sembra affievolirsi, tutto scompare nel nulla, gli spettri della morte svaniscono, e la bellezza di Sucre, raggiunta dopo molteplici complicazioni, mi restituisce il desiderio del viaggio e la forza di dimenticare.

19 novembre 2007

Santiago del Cile 11.01.2003

Santiago si offre a me in tutta la sua bellezza, cammino disperdendo lo sguardo, mi fermo ad osservare le case basse che via via degradano, case povere rispetto a quelle viste sulle colline (il nuovo rifugio dei ricchi, in mezzo a loro da qualche parte Pinochet continua a pontificare nonostante tutto….) vengo assalito dai profumi, dai colori, dai visi distesi delle persone che incontro, “questa terra è la mia terra”, mi sento così a mio agio, che quasi ne sono sconvolto, chissà, se credessi alla reincarnazione sarei propenso a pensare di essere stato in un’altra vita proprio un cileno.
Decidiamo di dirigerci verso il quartiere “Bellavista”, visiteremo la “Chascona” (la casa di Pablo Neruda) , il Museo delle belle arti e tutto ciò che potremo.
Il nostro cammino riprende, infaticabile, so dove siamo diretti, so che resterò meravigliato davanti alla casa di Pablo Neruda, saprò dopo quanto mi avranno colpito le sculture di Nunèz.
Il cielo è sereno, il freddo intenso della mattina ha lasciato posto ad un caldo asfissiante, maledetta escursione termica, siamo costretti ad uscire da casa imbacuccati e poi a svestirci frettolosamente mentre il sudore ci cola copioso dalla fronte. Vorrei che il tempo si fermasse, vorrei non dovere tornare in Italia, vorrei continuare a parlare con le persone, vorrei immaginare la mia vita diversa.
Il museo è magnifico, la struttura simile al nostro liberty, forse più vicino in realtà a quello francese, l’immensa copertura a vetri lascia che il sole colpisca le sculture rendendole più reali, ma sono figure fantastiche, il buon Nunèz utilizza ogni sorta di materiale, dal ferro al legno, alla paglia e al fango, ricordano i tanti muri che ho visto per le vie di Santiago, traspare dalle sue opere la passione, la sofferenza, l’immensa dimestichezza con le tecniche più disparate, stiamo a guardare a bocca aperta e ripenso ad Agustin che ce lo aveva preannunciato, ma lo stupore di fronte a tanta suggestione è inevitabile, scattiamo foto a ripetizione, non abbiamo fatto altro in questo viaggio, le nostre foto, con il grandangolo o lo zoom, tutto per cercare di fermare il tempo, d’immortalare e riuscire a trasmettere queste emozioni.
Adesso il caldo è davvero insopportabile, cerchiamo un posto dove poter mettere qualcosa sotto i denti, dove bere una birra fresca, ci aggiriamo furtivamente per il quartiere di Bellavista, la strada è tutta un susseguirsi di locali, dai pub alle trattorie, alle semplici bettole, cerchiamo una soluzione che stia nel mezzo.
Addento con voracità la mia tortilla, cavolo, l’insalata è zeppa di cipolle, non mangio mai le cipolle crude, cerco di scartarle, ma l’aroma intenso ha pervaso pomodori e quant’altro, il caffè non ci consola, abbiamo chiesto un “corto italiano” con la speranza che la tazza piccola che ci viene offerta sia foriera di un buon espresso, ma no, davvero non capisco, grandi produttori e pessimi baristi…
L’aria prende a raffreddarsi, il sole comincia il suo declino, guardo le Ande lì sullo sfondo di questa bellissima scenografia, le vette innevate, suppongo sia proprio perché il vento accarezza le cime che giunge a noi talmente gelido.
Il tassista ha l’aria rilassata, noi credo proprio di no, ci chiede dove portarci, sicuro del fatto mio pronuncio: Herrera mildossientooccianciados, certo che lui abbia capito e fiero di essermi imposto; si aveva capito, non so perché abbia poi girato in lungo e in largo senza trovare la destinazione, sino a quando non mi decido a dargli con fermezza le indicazioni del caso, altro carico di autostima… e Giuseppe gongolante.
E’ giunta sera, preparo il mio giaciglio di fortuna, quattro o cinque coperte mi faranno da materasso, un lenzuolo e un cuscino il resto. Non riesco a prender sonno, domani prenderemo l’aereo del ritorno, non riesco proprio a chiudere occhio, in un lampo le immagini del viaggio si frappongono tra me e la parete della stanza, rivedo mentalmente le diapositive, affranto per quelle che volevo fare e non ho fatto, felice per quelle casuali. La gatta continua a graffiare la porta, vorrebbe entrare, dopo tutto questa stanza sino al mio arrivo era la sua dimora personale, non me la sento di dividere il mio letto improvvisato, forse più tardi le aprirò, le palpebre lentamente cominciano a socchiudersi, cerco di abbandonarmi al sonno vinto dalla stanchezza, la resistenza che pongo è figlia del diniego, non voglio, non voglio, percepisco gli ultimi lamenti, la gatta, la mano scivola su un fianco, l’ultima notte cilena sta per andare, un breve sussulto, apro gli occhi, dalla finestra aperta la luna fa il suo ingresso, mi scappa un sorriso, buonanotte Santiago, arrivederci. Apro la porta la gatta felice viene a sistemarsi tra le mie coperte.

17 novembre 2007

El Tatio 07.01.2003

Ci vogliono i turni per riuscire a svegliarci in tempo e far parte della "spedizione", tre ore di viaggio dal deserto di Atacama, arrivando a quota 4321 mt., lo spettacolo che si offre ai nostri occhi è a dir poco affascinante, non è ancora giorno, fa un freddo bestia e ancora insonnacchiati non ci rendiamo perfettamente conto di cosa ci troviamo davanti, dai piccoli geyser a quelli più grandi ad un'autentica piscina naturale dove i più coraggiosi s'immergono felici di scrollarsi il freddo patito, Jorge con molta disinvoltura mette a cuocere le uova intere direttamente dentro l'acqua bollente di un piccolo geyser insieme ai brik del latte che poco dopo ci sembreranno una manna dal cielo, tra i fumi e gli schizzi continuo a tirar foto che resteranno per sempre nella mia memoria, tra i Lama, le Biscachas e il piccolo Zorro che con disappunto suppongo non arriverà a stasera, mi lascio trasportare dalla fantasia e dalle emozioni. il freddo via via che scendiamo verso Calama lascia il posto ad un caldo afoso e umido, un caldo che ti si appiccica addosso e ti fa sentire già a casa.

16 novembre 2007

La selva amazzonica 13.07.2005

Iquitos resta, a malincuore, soltanto l'occasione veloce per riprenderci dal viaggio in aereo. Alcune ore di viaggio in auto ed il successivo trasbordo in barca ci scodella, attraverso affluenti vari, in quello che pensiamo essere il cuore della selva amazzonica, è già buio e facciamo fatica ad orientarci, ci accompagnano due ragazzi del luogo, nessun lodge, nessuna capanna, il nostro hotel a cinque stelle è una palafitta aperta su tutti i lati, un giaciglio di coperte ed una zanzariera a proteggerci dagli insetti. Una settimana a diretto contatto con la natura ancora incontaminata, immersi nel verde e circondati dall'acqua. Ci laviamo nel rio, con qualche timore per la presenza di piranha, coccodrilli e quant'altro, sembra quasi di ottemperare ad un qualche rito tribale, ci si lava i denti con l'acqua torbida e marroncina, restiamo affascinati dal silenzio, dalla fitta vegetazione, dallo scorrere silenzioso dell'affluente, è svanito il caldo, non sentiamo l'umidità, ci lasciamo lentamente trasportare dalle emozioni, il sorriso delle donne e dei bambini che vivono in una delle tante comunità presenti lungo i fiumi, ci ripaga della fatica e dei disagi tutti occidentali. Il curandero che sentiamo cantare in una notte stellata, induce timore, rispetto, ed un sorriso beffardo all'indirizzo dei tre ragazzi svizzeri che a caccia di emozioni si ritrovano a vomitare anche l'anima. Quando le cibarie scarseggiano ci ritroviamo a pescare e mangiare i piranha, chi l'avrebbe mai detto.
I giorni passati in quell'angolo sperduto di mondo, ci indurranno a nuovi pensieri...

Che brasile? 26.07.2007

Il fumo della sigaretta sale lento, percepisco il freddo e maledico di aver lasciato il pile in hotel. Santa Teresa, il bondes (tram) in salita, i ragazzini che saltano a bordo, ci guardiamo intorno stralunati non sembra neanche che poco sotto scorra la grande metropoli con le sue bellezze, le sue contraddizioni, le frotte di turisti.
E' sempre così, corriamo a rifugiarci lontano dai clamori, col gusto dell'avventura e il desiderio di saperne di più.
Il giorno che a poco a poco svanisce, la stanchezza, la metro più pulita che tu abbia mai visto e ti domandi se davvero sei tu, come sembra, il più sporco e malvestito.

5 novembre 2007

Il mio primo giorno qui

Ci eravamo lasciati alle spalle Iguatzù e le poderose cascate che abbracciano tre paesi.
La Quebrada sarebbe stata tutta un'altra cosa, ma in questo giorno che segna il mio ingresso qui, la mente è distolta dalle immagini di un film, violente, crude, e troppo vere, della Cambogia, della Cecenia, del Sudafrica, del Pakistan, l'elenco potrebbe continuare, affido le mie inutili parole a un diario che ancora non so se prenderà forma.